Vibecoding

Vibe Coding: Genialità assistita o disastro automatizzato?

La programmazione ha un nuovo tormentone: vibe coding. Immagina di scrivere software guidato solo da vibrazioni (aka prompt in linguaggio naturale) mentre un’IA come Cursor sforna codice al posto tuo. Sembra fantascienza: l’AI Code Editor che promette di farti costruire applicazioni parlando col computer come fosse un collega instancabile. Ma questa “genialità assistita” è davvero la svolta per gli sviluppatori, o rischia di tradursi in un “disastro automatizzato” quando l’entusiasmo prende il posto dell’ingegneria?
Il fenomeno del vibe coding, con strumenti come Cursor, GitHub Copilot, ai.dev, Amazon CodeWhisperer e affini, è stato idealizzato da molti: Vedremo perché, nonostante l’AI in editor, serva comunque un ingegnere umano per far funzionare davvero il tutto; un uso superficiale e mal guidato dei modelli linguistici porta spesso a codice fragile, incoerente o ingestibile, mentre un prompting “ingegneristico” e ben pensato può dare risultati solidi (spoiler: il trucco sta nel come usi l’AI, non nell’AI in sé). Tra aneddoti reali, consigli pratici e un pizzico di sarcasmo, capiremo insieme se il vibe coding è genialità pura o solo l’ultima moda pronta a implodere.

Cos’è il vibe coding (e cosa promettono tool come Cursor)?

Iniziamo dalle basi: vibe coding è un termine coniato di recente per descrivere un nuovo modo di scrivere codice con l’AI. A differenza del normale coding assistito, qui ci si “abbandona alle vibrazioni”: tradotto, si lascia che sia il modello di linguaggio a generare gran parte del codice, senza controllarne ogni dettaglio. In pratica è come dire: “scrivi tu, cara AI, io accetto tutto e non guardo nemmeno il diff delle modifiche”. L’ex direttore di Tesla AI Andrej Karpathy, che ha coniato il termine su Twitter, lo descrive così: costruisci un’app con l’LLM dimenticandoti quasi che esista del codice sotto; chiedi anche le cose più banali (“diminuisci il padding di questo sidebar della metà”) perché sei troppo pigro per farlo a mano, clicca “Accept All” alle modifiche generate e incolla eventuali messaggi d’errore di nuovo nel prompt per farli risolvere. Insomma, il vibe coder non scrive codice, lo fa scrivere all’AI e si limita a guidare “a sentimento” (da qui il termine vibe, vibrazioni): vede qualcosa che non va, lo descrive a parole all’AI, esegue di nuovo, e così via, senza occuparsi dei classici dettagli ingegneristici.

Strumenti come Cursor sono nati proprio per abilitare questo workflow. Cursor si definisce “The AI Code Editor” e consente di dialogare col codice: puoi chiedere di creare funzioni, modificare file interi, generare nuovi moduli, il tutto tramite prompt in linguaggio naturale, con il modello (es. GPT-4/Claude) integrato che agisce sull’intero progetto. È come avere un pair-programmer robotico direttamente nell’IDE. Oltre a Cursor, abbiamo visto emergere una schiera di assistenti AI per coding: da GitHub Copilot (l’estensione di VS Code che completa linee e funzioni mentre scrivi) a Amazon CodeWhisperer (ottimizzato per consigli su stack AWS), fino a nuovi tool sperimentali come ai.dev e alternative open source. Tutti promettono in varia misura di farci scrivere codice più velocemente e con meno fatica, chi più come auto-completamento intelligente, chi più come agente autonomo. Il vibe coding è l’estremizzazione di questa tendenza: “costruisco software parlando”, delegando all’AI la parte operativa.

Prima di scatenare facili entusiasmi, però, chiariamo: vibe coding non significa semplicemente usare l’AI per scrivere codice; significa farlo senza le usuali cautele dello sviluppo software. Non è sinonimo di programmazione assistita responsabile, anzi ne rappresenta un sottoinsieme piuttosto “wild”. Come osserva lo sviluppatore Simon Willison, se usi un LLM per aiutarti ma poi revisioni attentamente ogni riga generata, la testi e ti assicuri di capirla, NON stai facendo vibe coding — stai semplicemente programmando con un aiuto in più. Il vibe coding puro invece implica fidarsi ciecamente del modello e non “sporcarsi le mani” col codice. È una distinzione cruciale, che ci serve per inquadrare i pro e contro.

Il miraggio della genialità assistita: perché l’AI fa gola agli sviluppatori

Perché mai uno sviluppatore navigato dovrebbe farsi tentare dal vibe coding? Beh, i motivi sono comprensibili. Produttività e velocità in primis: un LLM può sputare fuori in pochi secondi quello che a un umano richiederebbe minuti o ore. Lo stesso Karpathy ha ammesso che utilizzare un modello in modalità vibe lo diverte perché “la velocità con cui un LLM può produrre codice è di un ordine di grandezza maggiore di quella del programmatore più rapido”. Per prototipi e progetti del weekend, lasciar “stracciare” l’AI sul codice può far costruire un’app funzionante in tempo record. C’è chi è riuscito a farsi generare giochini completi in 30 minuti con Cursor o tool simili – cose magari rozze ma funzionanti, impensabili con la stessa rapidità scrivendo tutto a mano. Insomma, la promessa è di avere un “developer 10x” artificiale che implementa feature alla velocità della luce.

Non solo: gli AI coding assistant stanno diventando veri compagni di squadra. Strumenti come Copilot hanno dimostrato in studi aziendali di poter aumentare la velocità di sviluppo di un 30-40% in certi contesti. Ad esempio, uno studio su progetti reali ha rilevato che Copilot può accelerare del 34% la scrittura di nuovo codice e del 38% la scrittura di test unitari, con il 96% degli sviluppatori che riportano meno frustrazione e maggiore produttività quotidiana grazie all’AI. Sono numeri significativi: significa liberare tempo per le parti più creative o complesse del lavoro, delegando all’AI boilerplate, codice ripetitivo e task noiosi. Chi l’ha provato racconta di sentirsi come se avesse un junior developer instancabile al proprio fianco, pronto a buttare giù implementazioni base mentre il senior si concentra sulla logica di alto livello.

Un altro aspetto affascinante è la accessibilità dello sviluppo software. Con questi strumenti, anche persone con poca o zero esperienza di coding possono ottenere risultati. Il vibe coding, in particolare, “si concentra sui risultati e sul workflow invece che sui dettagli minuziosi dell’ingegneria del software”. Tradotto: puoi creare software funzionante anche se non conosci bene un linguaggio, perché descrivi ciò che vuoi e l’AI si occupa della sintassi e dell’API. Un blogger ha descritto come, pur non essendo affatto un programmatore, sia riuscito a sviluppare un plugin WordPress funzionante guidando Cursor e Claude con prompt mirati. Certo, “la qualità del codice è un altro paio di maniche” come ammette lui stesso, ma intanto l’app gira. Questa democratizzazione del coding fa sognare: “non ti serve una laurea in informatica per automatizzare compiti specifici col computer”, scrive Willison, milioni di persone in più potrebbero costruire i propri tool su misura grazie al vibe coding. Alcuni magari si appassioneranno e diventeranno sviluppatori veri col tempo, abbassando le barriere d’ingresso di una professione finora riservata a chi affrontava ripide curve di apprendimento.

In sintesi, la genialità assistita dell’AI appare come un miraggio bellissimo: software che prende forma quasi da solo, sviluppatori umani elevati al ruolo di orchestratori di alto livello, prototipi lampo e refactoring automatizzati a comando vocale. Chi non vorrebbe un assaggio di questo futuro? Persino team esperti ne traggono beneficio se usati con giudizio: ad esempio, in un caso di migrazione di un’app da Angular a React, gli sviluppatori hanno usato Copilot per riscrivere automaticamente tutto il boilerplate ripetitivo, risparmiando circa il 40% del tempo. Hanno definito a monte gli standard che il codice generato doveva rispettare e li hanno passati all’AI nel prompt, ottenendo componenti conformi alle loro convenzioni e potendo così concentrarsi sulla logica di business. Quando l’AI lavora sotto la guida di buone istruzioni, può davvero potenziare il team umano e far volare la produttività.

Fin qui, tutto rose e fiori. Ma come ogni sviluppatore navigato sa, there is no free lunch nel nostro campo. Dietro al miraggio della genialità assistita, si nascondono parecchie insidie tecniche. Vediamo il rovescio della medaglia.

Il lato oscuro: dal codice fragile ai grattacapi architetturali

Facciamo un reality check: cosa succede quando si abbraccia il vibe coding senza disciplina? In altre parole, quali sono i rischi di un uso superficiale e mal guidato degli LLM nello sviluppo?

Per cominciare, il codice generato dall’AI può essere sintatticamente corretto ma strutturalmente disastroso. Un esempio lampante viene dall’ingegnere Neil Macneale, che ha raccontato la sua esperienza provando Cursor sul codebase di Dolt (un database SQL open source). Dopo alcuni tentativi, è riuscito a farsi generare un tool funzionante senza scrivere “una sola riga di codice” personalmente. Fantastico, no? Peccato che, guardando sotto il cofano, il codice facesse rabbrividire: “tutto il codice era finito dentro la funzione main()” racconta Neil. In pratica l’AI aveva ammucchiato logica, accesso al database, clonazioni di repository e scrittura file tutto in un’unica funzione gigante. Un incubo per la manutenibilità. L’ingegnere ha dovuto poi rimboccarsi le maniche e ripulire, spezzettando in funzioni più piccole e ordinando quel groviglio. Quando ha provato a chiedere a Cursor di aiutarlo a refattorizzare – selezionando un blocco di codice e dicendo di estrarlo in una funzione Foo()Cursor ha combinato un pasticcio tremendo: ha cancellato il codice selezionato e messo al suo posto solo la chiamata Foo(), senza definire da nessuna parte la nuova funzione. Puf, sparito codice funzionante. Fortuna che c’era Git a portata di mano per recuperare la versione precedente, altrimenti addio lavoro di ore. E non è finita: l’AI continuava ad infilare chiamate a log.Fatalf (che terminano il programma immediatamente) ovunque, persino dopo che Neil aveva chiesto di gestire certi errori in modo non distruttivo. Sembrava proprio che non capisse l’impatto di un log.Fatal – afferma ironicamente – e ignorava le richieste di correggerlo. Morale: se le indicazioni sono vaghe o se lasci fare al modello in autonomia su parti complesse, rischi architetture raffazzonate e bug latenti inseriti “di default”.

Un secondo grosso problema sono le lacune nei requisiti e nei casi limite. Un LLM non ha intuizione né esperienza: fa esattamente (e solo) ciò che gli chiedi. Se tu ometti dettagli importanti nel prompt, il codice generato difficilmente li includerà per magia. Ad esempio, la JetBrains (produttrice di IntelliJ) nota che chiedere genericamente a un’AI “crea una REST API Spring Boot” può restituire qualcosa di funzionante, ma quasi sicuramente mancheranno aspetti che uno sviluppatore attento includerebbe: la paginazione sulle liste, una Dependency Injection fatta a modo (l’AI potrebbe usare injection di campo invece di costruttore), un handling degli errori robusto, logging, rispetto delle convenzioni di naming del progetto, ecc.. In assenza di linee guida esplicite, l’AI tende a produrre soluzioni minime e talvolta anti-pattern, perché ottimizzate per far funzionare la richiesta alla bell’e meglio. Un software costruito così è fragile: può andare in crisi non appena esci dal caso base previsto nel prompt. Immagina un servizio web senza gestione degli errori né validazione input – in un percorso “happy path” tutto ok, ma al primo input malformato o condizione inattesa, boom 💥 erroraccio in produzione.

Ancora più insidiosi sono i problemi di sicurezza e qualità nascosti. Diversi studi di sicurezza hanno messo alla prova gli LLM come programmatori e i risultati fanno riflettere. Una ricerca di Backslash Security del 2025 ha rivelato che, con prompt “ingenuo” (ovvero richieste di codice senza specificare requisiti di sicurezza), tutti i modelli testati generavano codice vulnerabile almeno a 4 su 10 categorie comuni di falle (CWE). Parliamo di cose tipo injection SQL, XSS, gestione errata di file upload, ecc. – vulnerabilità classiche che un senior dev eviterebbe quasi istintivamente, ma che l’AI non considera se non glielo chiedi esplicitamente. Solo aggiungendo richieste esplicite del tipo “rispetta le best practice OWASP” la qualità migliorava, pur restando 5 modelli su 7 ancora inclini a inserire qualche vulnerabilità. In pratica, out-of-the-box l’AI coder è un programmatore piuttosto sprovveduto in fatto di sicurezza, bisogna addestrarlo a fare meglio via prompt o con regole automatiche. Questo vale anche per altri aspetti di qualità: un LLM non “sente la puzza” di memory leak, di query non indicizzate, di algoritmi “Big O Notation” – a meno che tu non glielo faccia notare tu. Dunque se un team adotta il vibe coding alla cieca, potrebbe ritrovarsi con codice insicuro, inefficiente e non resiliente annidato nel proprio prodotto senza accorgersene, finché magari un exploit o un crash in produzione non sveglia tutti di colpo.

Infine, c’è la questione della scalabilità umana e comprensibilità. Un progetto software non è un insieme di file isolati: è un sistema organico, dove serve coerenza e visione d’insieme. Il vibe coding tende a generare codice che “cresce oltre la normale comprensione” del singolo sviluppatore, soprattutto se l’umano si limita a dare direttive senza mai leggere davvero ciò che l’AI produce. Karpathy stesso avvertiva: “il codice cresce al di là della mia solita comprensione, dovrei davvero leggerlo per un bel po’ (ma non lo faccio)”. Significa costruire potenzialmente un castello di carte: finché tutto va secondo i piani, ok, ma se devi mettere mano a una parte del sistema che non hai mai davvero guardato perché l’ha scritta l’AI, potresti trovarti perduto.

Le esperienze negative si accumulano: output incostante, qualità da programmatore junior alle prime armi, bisogno continuo di controllare e correggere. C’è chi riassume così l’attuale realtà dei fatti: “l’AI spesso ti propone implementazioni sub-ottimali, non sa generalizzare né astrarre bene e ti abbandona proprio quando serve quel guizzo in più”. Un senior developer racconta di aver provato a usare un assistente AI avanzato per debuggare un problema tosto in Go: “Ha commesso vari errori significativi di coding. Ho dovuto annullare i suoi cambiamenti 3 o 4 volte”. Alla fine l’ha usato come una sorta di paper duck intelligente: non ha risolto il bug, non l’ha nemmeno descritto in modo coerente, però dandogli spago ha fatto emergere qualche indizio utile che ha aiutato il programmatore umano a capire la situazione. Un assistente, appunto, non un sostituto. E aggiunge un’ammissione illuminante: il vantaggio c’è nei compiti di routine e ripetitivi (dove l’AI è velocissima), ma su problemi più oscuri e creativi l’aiuto si riduce molto – anzi, spesso la bilancia pende verso il tempo perso a verificare e correggere fandonie.

Insomma, il verdetto sul lato oscuro è chiaro: il vibe coding senza controllo trasforma l’AI in un generatore di debito tecnico. Codice apparentemente funzionante ma fragile come cristallo, potenziali falle di sicurezza pronte a esplodere, design incoerenti e anti-pattern disseminati ovunque, conoscenza del sistema che sfugge di mano al team. Un disastro automatizzato in piena regola, anche se non immediato, che si manifesterà più avanti sotto forma di bug misteriosi, performance degradanti e bug-fixing da incubo (perché aggiustare un pezzo di codice scritto da un’entità che non ragiona come te può essere come decifrare geroglifici).

Dobbiamo dunque concludere che questi tool siano inutilizzabili o dannosi? Assolutamente no. Significa però che servono metodo e buone pratiche per sfruttarli al meglio senza cadere nelle trappole.

Regole d’oro per un vibe coding di successo (con un ingegnere al comando)

Come possiamo godere dei benefici dell’AI coding assistant evitando gli errori visti? La chiave è ricordare che l’AI è un assistente, non un mago onnisciente. L’AI aumenta l’umano che la usa, un Senior Developer diventerà un “Senior Developer on steroids”, un cretino diventerà un supercretino.

Siamo noi a dover impostare il lavoro perché produca buon codice. Ecco alcune regole e best practice essenziali per strutturare un progetto in modo AI-friendly ma robusto, facendo rispettare pattern architetturali, documentazione e test unitari.

  • 1. Definisci standard e convenzioni prima di generare codice

    Non buttarti a chiedere feature a caso. Prima prepara (anche con l’aiuto dell’AI stesso, io lo faccio perfino su altre AI) un documento di convenzioni di progetto. In questo file definisci: linguaggi e framework usati, architettura prevista (es. “seguire il pattern MVC con servizi separati per logica di business”), stile di codifica (naming, formattazione, ecc.), best practice obbligatorie (es. “usare injection via costruttore, niente variabili globali”, oppure “tutte le query devono passare dal modulo X”). Specifica anche come l’AI dovrebbe interagire (ad esempio “fornisci spiegazioni nei commenti del codice” o “fai domande se i requisiti non sono chiari”). Questo diventa il contratto da dare in pasto all’AI all’inizio, così da allinearlo alle aspettative. Una volta scritto, incorpora queste linee guida nei prompt o nei file di configurazione dell’assistente (alcuni tool come Junie di JetBrains permettono di caricare un file guidelines.md dedicato). In questo modo, l’AI seguirà già un certo schema invece di improvvisare. Eviterai sorprese come dipendenze messe a caso, nomenclature incoerenti o strutture bizzarre che violano l’architettura decisa.
  • 2. Fornisci sempre il contesto necessario – Gli LLM non conoscono veramente il tuo progetto né possono leggerne la mente. Sta a te imboccarli con le informazioni di contesto. Quando chiedi all’AI un aiuto, includi parti rilevanti del codice esistente, spiega la struttura attuale e cita eventuali decisioni di design già prese. Esempio: “Sto lavorando su un componente React che deve fare fetch di dati da una API. Questo è il client API esistente e usiamo un pattern standard per gestire i loading state (fornisci snippet). Implementa il componente seguendo quel pattern e gestendo gli errori nello stesso modo.” – Così l’AI avrà elementi per integrarsi senza creare soluzioni scollegate. Se il tuo progetto ha moduli comuni o utility, rendili noti al modello (copiando magari la firma di funzioni utili già implementate).
    Non dare per scontato nulla: meglio specificare “usa la funzione X per fare logging” piuttosto che ritrovarsi tre logging framework diversi perché l’AI ne ha importato uno nuovo ogni volta. In breve, tratta l’AI come un junior developer appena arrivato: dagli onboarding, documentazione, regole e riferimenti al codice esistente.
  • 3. Procedi per passi e iterazioni – Il vibe coding fallisce quando si pretende magia al primo colpo. Difficilmente otterrai codice perfetto con un singolo prompt enorme tipo “fammi tutta l’app X”. Meglio spezzare il lavoro in piccoli obiettivi incrementali.

    Adotta un ciclo:
    prompt → codice grezzo → review → prompt di miglioramento → … e così via.

    Ad esempio, prima fai generare una struttura di base (scheletro di classi, magari con metodi vuoti), poi riempi una funzionalità alla volta. Dopo ogni output, controlla e collauda e dai feedback mirati:

    Ok, ora ottimizza questa funzione usando un algoritmo più efficiente” oppure “Aggiungi il controllo delle input negative qui, come da requisiti“.

    Questo processo iterativo sfrutta il meglio dell’AI (rapidità nel proporre soluzioni) ma lascia a te il controllo qualitativo ad ogni passo. Inoltre, se l’AI prende una strada sbagliata, è più facile correggerla subito su un piccolo diff che non a fine giornata su migliaia di linee generate. Un tip utile: non aver paura di fare rollback se una serie di prompt ha incasinato il codice. Proprio come faresti con Git revert, annulla e riparti da una base stabile invece di intestardirti a “far sistemare” all’AI un output già malmesso. Spesso ricominciare con un approccio leggermente diverso porta a un risultato migliore che tentare di riparare un risultato sbagliato.
  • 4. Mantieni il ruolo umano: revisiona criticamente il codice AIMai fare commit di codice generato senza averlo letto e compreso. Questo dovrebbe essere ovvio, ma vale la pena ribadirlo: la revisione umana è obbligatoria. Come regola d’oro, non inserire nel tuo repository nulla che non sapresti spiegare a un collega. Passa in rassegna ogni PR dell’AI come faresti con quella di un collega junior: cerca bug, edge case non gestiti, possibili exploit o cali di performance. Gli errori più comuni da parte dell’AI includono: uso di funzioni deprecate, soluzioni non scalabili, assunzioni errate sui dati, mancanza di controlli su input esterni.

    Testa subito il codice generato in locale: se è una funzione, scrivi piccoli snippet per provarla con input diversi; se è un componente UI, aprilo nell’app e interagisci per vedere se esplode qualcosa. Un aiuto può venire da strumenti automatizzati di code review, così lo sviluppatore può concentrarsi sui controlli logici più sottili. Che tu lo faccia a occhio nudo o con strumenti, non saltare questo passaggio. Ricorda: l’AI può produrre bug subdoli che compilano/eseguono ma sono concettualmente sbagliati (la cosiddetta hallucinated logic). Meglio scoprirli subito che in produzione.
  • 5. Pretendi documentazione e spiegazioni – Un buon sviluppatore documenta ciò che fa; il tuo assistente AI dovrebbe fare lo stesso. Includi nei tuoi prompt la richiesta di aggiungere commenti e documentazione al codice generato, oppure chiedi all’AI di fornirti una spiegazione passo-passo dell’algoritmo che ha scelto. Ad esempio: “Genera la classe X e documenta ogni metodo con un breve commento su cosa fa.” Oppure dopo aver generato del codice: “Spiegami questa funzione come faresti a un altro sviluppatore“.

    Questo ha due benefici:
    (1) ti aiuta a capire rapidamente l’output (se l’AI non sa spiegare il proprio codice, è un campanello d’allarme che potrebbe aver tirato fuori qualcosa di insensato);
    (2) produce già materiale di documentazione che potrà servire al team. Alcuni assistenti sono in grado di generare anche unit test se richiesto: approfittane (ad esempio, “fornisci anche test unitari per questa classe usando la libreria Y“). Copilot e simili hanno mostrato di poter accelerare anche la creazione di test banali, quindi delega pure all’AI la prima bozza di test, ma non fidarti ciecamente: esegui i test e controlla che davvero stiano testando quello che pensi tu (spesso i test generati dall’AI possono essere deboli o passare sempre perché controllano poco/nulla).

    In generale, fai dell’AI un supporto alla documentazione oltre che al codice: ad esempio puoi chiedergli di riassumere in un README le scelte architetturali mano a mano che definisci l’app, o di aggiornare la documentazione ogni volta che aggiunge una feature.
  • 6. Tieni l’AI al passo coi pattern architetturali – Se il tuo progetto adotta specifici pattern (DDD, esagonale, MVC, microservizi, ecc.), devi continuamente ribadirlo nelle tue interazioni. Ogni volta che fai implementare qualcosa, verifica che rispetti la collocazione prevista nell’architettura. Ad esempio, se stai seguendo MVC e chiedi di aggiungere una funzionalità, chiarisci nell’istruzione se la logica va in un Service, se serve un repository, quale controller chiamerà il tutto, ecc. Non dare spazio all’AI di introdurre scorciatoie (tipo logica di business dentro il controller) senza che tu lo colga subito e lo corregga. Può aiutare disegnare modelli di file/folder vuoti in anticipo e dire all’AI dove mettere cosa. Ad esempio: “Ho una cartella services/ e una controllers/. Scrivi la classe di servizio X (senza toccare il controller) e poi scriveremo il controller separatamente“. Così l’AI “capisce” la separazione dei ruoli. In sostanza devi imbrigliare l’AI nei confini architetturali che un senior designer delineerebbe comunque. Se noti che l’AI propone codice fuori posto (es. query SQL dentro il code-behind di una pagina), fallo rimediare: “sposta questa logica nel repository Y e fai chiamare il repository dal service, non dal controller“. È un po’ come educare un nuovo membro del team sulle best practice architetturali: all’inizio dovrai ripetere le regole, ma col tempo (e magari usando sempre gli stessi file di linee guida nel prompt) l’AI si allinea.
  • 7. Non ignorare i limiti del modello (né i tuoi) – Anche con tutte queste precauzioni, ricorda che gli LLM hanno limiti intrinseci: finestra di contesto massima, possibili hallucination, difficoltà con logiche molto complesse o con requisiti troppo vaghi. Se stai lavorando su un modulo critico (es. calcolo finanziario, algoritmo hardcore) e l’AI inizia a fornire soluzioni confuse, potrebbe essere il momento di prendere in mano la tastiera e codificare quel pezzo “alla vecchia maniera”. Oppure suddividi ulteriormente il problema in sotto-problemi più semplici che il modello possa digerire uno alla volta.

    Non intestardirti nel far fare all’AI qualcosa per cui non è addestrata o che eccede la sua capacità.

    Allo stesso modo, occhio a non oltrepassare i tuoi limiti di comprensione: se l’AI sforna 5000 righe di codice e tu non riesci a seguirle, fermati. È preferibile richiedere output più piccoli e modulari, che puoi capire e testare man mano, piuttosto che un dump monolitico ingestibile. Il rischio altrimenti è di diventare dipendente dall’AI anche per leggere il codice (devi chiedere a lei spiegazioni su ciò che lei stessa ha scritto!) entrando in un circolo vizioso di scarsa conoscenza del tuo stesso progetto.

In sostanza, l’atteggiamento vincente è: tratta l’AI come un assistente molto veloce ma alquanto smemorato e ingenuo. Ha bisogno delle tue direttive chiare per fare bene, e ha bisogno che tu vigili sul risultato come farebbe un mentore esperto. In gergo di pair programming, tu rimani il “navigatore” che imposta la rotta, e l’AI è il “conducente” che scrive codice seguendo le indicazioni. Non cedere alla tentazione di cedere anche il volante: finché mantieni la guida del design e delle decisioni critiche, potrai sfruttare l’AI come power-up e non come sostituto irresponsabile.

Cosa non fare assolutamente (se tieni alla salute del tuo software)

Vale la pena evidenziare anche gli anti-pattern, ovvero cosa non devi fare quando lavori con un AI assistant su un progetto serio:

  • Non considerare l’AI infallibile o “magica” – L’errore peggiore è pensare che “se lo ha scritto ChatGPT/Copilot, allora va bene”. Abbiamo visto che non è così: un LLM può produrre soluzioni apparentemente plausibili ma errate o insicure. Se prendi ogni output per oro colato, riempirai il tuo progetto di mine inesplose. Ogni suggerimento va filtrato dal tuo giudizio ingegneristico.
  • Non saltare la fase di progettazione – L’AI è velocissima a codificare, ma non sa progettare architetture su misura per te (a meno che tu glielo chieda specificamente e comunque con risultati variabili). Se ti butti a implementare feature su feature col prompt, senza un disegno coerente, otterrai un accumulo di pezzi scollegati e probabilmente ridondanti. Resisti all’impulso di “iniziare a sviluppare subito perché tanto c’è Copilot”: prima pensa a come deve essere strutturato il software. Se ignori design e struttura, l’AI seguirà il percorso minimo e te ne accorgerai quando sarà troppo tardi, con un’app difficile da manutenere.
  • Non affidare all’AI le decisioni critiche – Pattern architetturali, scelte di stack, logica di core business: queste sono cose che devi decidere tu o il tuo team. Se chiedi all’AI “quale database dovrei usare?” o “mi costruisci tu un sistema di pagamento?”, sappi che deciderà in base a esempi generici trovati nei dati di training, non in base alle esigenze specifiche del tuo progetto (che non può conoscere). Il risultato potrebbe essere tecnicamente funzionante ma completamente inadatto al contesto. Usa l’AI per implementare la decisione, non per prenderla.
  • Non ignorare i warning e gli errori – Se il compilatore o il runtime ti danno warning/errori, non limitarti a incollarli ciecamente all’AI sperando che li risolva a tentativi. Questo porta spesso a toppe su toppe che magari fanno sparire l’errore immediato ma introducono altri problemi a valle. Prendi quei segnali come farebbe un debugger umano: analizzali, cerca di capire cosa non va e solo dopo coinvolgi l’AI, magari con un prompt più mirato (“sto avendo questo errore X in questa situazione Y, come posso risolverlo senza rompere Z?”). Ignorare sistematicamente i problemi affidandoli all’AI equivale a spazzare la polvere sotto il tappeto.
  • Non lasciare il codice non testato – La velocità dell’AI può invogliare a implementare 10 feature di fila e “poi testiamo tutto alla fine”. Errore grave: rischi di non sapere più quale dei mille cambiamenti ha introdotto un bug, e di avere uno sbroglio complicatissimo. Mantieni disciplina TDD se possibile, o comunque testa ogni pezzo man mano. E soprattutto, non mettere in produzione nulla generato dall’AI che non sia passato per una suite di test automatici e magari una prova manuale. L’AI non ha il buon senso di un umano nel prevedere scenari d’uso, quindi i test servono doppiamente.
  • Non dimenticare la sicurezza e la privacy – Collegato al punto precedente sulla sicurezza: se il tuo software tratta dati sensibili o compie operazioni critiche, non assumere che l’AI abbia scritto codice sicuro. Fai sempre una passata pensando “come potrei bucare/ingannare questa funzione?”. Inoltre, attenzione a cosa copi nei prompt: non mettere chiavi API, dati personali o porzioni di codice proprietario nei prompt di un servizio cloud senza autorizzazione, perché potresti violare policy aziendali o esporre info riservate. L’AI è un terzo rispetto al tuo progetto: tratta i prompt come faresti con un consulente esterno a cui dai accesso.

In sintesi, se vuoi evitare un disastro: non abdicare al tuo ruolo di ingegnere solo perché c’è un’AI nella stanza. Tutte le pratiche che applicheresti in un progetto tradizionale (design, code review, testing, security review, documentazione) restano valide – anzi, diventano ancora più cruciali quando il codice lo scrive qualcun altro (fosse anche un “qualcun altro” siliconico). Ignorarle significa costruire castelli di carte pronti a crollare.

Genialità e disciplina, non automatismo cieco

Allora, vibe coding: genialità assistita o disastro automatizzato? Dopo questo viaggio, la risposta è… dipende da come lo usi. L’AI può certamente sembrare una genialata – un copilota instancabile che propone soluzioni e accelera lo sviluppo – ma senza la giusta disciplina diventa un moltiplicatore di caos. Come abbiamo visto, con prompt approssimativi si ottiene codice approssimativo (o peggio). Viceversa, con una guida esperta e istruzioni ben congegnate, gli assistenti come Cursor, Copilot e soci possono produrre output di qualità più che accettabile, facendoti risparmiare tempo e fatica senza compromettere l’integrità del software.

La verità è che il cuore dell’ingegneria del software resta umana. Un progetto reale ha bisogno di comprensione profonda, di capacità di valutare trade-off, di “sentire” quando qualcosa nel design è sbagliato – competenze che appartengono all’ingegnere in carne e ossa. Gli AI coder portano velocità e (quando ben indirizzati) anche una certa creatività generativa, ma non possono assumersi la responsabilità finale di un sistema affidabile. Come ha concluso amaramente un autore dopo aver costruito un’intera applicazione senza toccare codice manualmente: “funziona, ma se qualcosa si rompe non sono in grado di aggiustarlo da solo, né ho idea di come funzioni buona parte del back-end… Gli ingegneri in carne e ossa hanno ancora l’expertise profonda, assicurano le best practice e mantengono il codice evolvibile. L’AI può fare tanto, ma il software reale dipende ancora dal know-how umano”. In poche righe: programmatori obsoleti? Tutt’altro. L’AI può scrivere codice, sì, ma ci vuole un ingegnere perché quel codice diventi software di qualità.

Dunque, abbracciamo pure gli assistenti AI – sono strumenti potentissimi, ma facciamolo con cognizione: Il vero salto di qualità non è togliere l’uomo dall’equazione, bensì elevare il suo ruolo: meno typing ripetitivo, più controllo architetturale; meno “scrivi questa funzione per me”, più “orchestra questo sistema con me”. In questo equilibrio, il vibe coding può davvero funzionare, come dicono i fan, anziché diventare sinonimo di cattiva programmazione.

Alla fine della fiera, la domanda non è se Cursor o Copilot rimpiazzeranno i developer, ma quale tipo di developer saprà usarli al meglio. I coder pigri che sperano di premere un bottone e andare in spiaggia probabilmente rimarranno delusi (o lasceranno macerie digitali). I coder curiosi e rigorosi, invece, si troveranno a guidare legioni di “stagisti AI” verso risultati che un tempo richiedevano eserciti di programmatori. E questa sì che è genialità assistita – con l’umano sempre al posto di comando, e l’AI nel ruolo che le spetta: potente esecutore, instancabile suggeritore, ma pur sempre strumento nelle mani dell’ingegnere software.