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I Torquemada del remote working

Sempre più spesso, ora che l’emergenza COVID sembra parzialmente contenuta e rientrata, sento manager schierarsi contro il lavoro da remoto: “non è vero lavoro, sono dei fannulloni, bisogna pagarli meno, devono tornare in ufficio a farsi sorvegliare”

La mentalità ottocentesca viene mascherata, appoggiando con fervore una notizia dell’ultima azienda americana che richiama i lavoratori, o decide di sfruttarli di più pagandoli meno negli stati in cui il costo della vita è più contenuto.

Secondo me i lavoratori in Full Remote Working vanno invece pagati di più: ecco la mia lista di motivazioni.

Il lavoratore Full remote, è una persona di cui hai la massima fiducia, che porta sempre a casa i tuoi obiettivi.

Quindi pagalo bene.

L’obiezione dei critici è che, una volta a casa propria, il lavoratore si stenda sul divano, guardi Netflix e abbandoni il posto di lavoro.

In quel caso di chi sarebbe la colpa se non di un manager, che forse riconoscendosi nel personaggio, ha assunto un inetto? Siamo certi che la produttività di un tale dipendente fosse più alta in ufficio?

Inoltre, una persona dotata di buon senso, perché dovrebbe accasciarsi sugli allori e attendere il prossimo licenziamento, che potrebbe peggiorare le condizioni di vita pesantemente? Rischiare di tornare a perdere due ore della propria vita sui mezzi, ogni giorno, in una grande città? State tranquilli che il ragionamento logico propenderà per raggiungere sempre gli obiettivi e mantenere il proprio status.

Ha un proprio ufficio, in casa, in spiaggia o dove preferisce.

E non occupa il tuo, che puoi usare per altri motivi, o dismettere.

Questa situazione da un lato è un risparmio per le infrastrutture aziendali, dall’altra un costo per il lavoratore: occorre quindi cercare di contribuire in maniera proporzionata ai costi.

La possibilità di lavorare pressoché dovunque stimolerà il lavoratore ad aggiornarsi ed a migliorare la propria formazione professionale, sia online che a corsi ed eventi. Questo genere di formazione ha anche essa un costo. Un costo fuori azienda.

Consentendo il remote, e perché no il south working, o il nomadismo digitale, solleviamo da molti pesi il lavoratore, che essendo più sereno, produrrà di più e con migliore qualità.

L’auto-formazione del lavoratore lo rende proprietario di un proprio metodo basato sulle proprie esperienze, irripetibile.

Una formazione non trasferibile da preservare, perché perdendo il lavoratore andrà ricominciata.

La verità che non esiste un team uguale all’altro, è ben nota.

Queste peculiarità si amplificano nel caso dei team totalmente remoti: un mashup di culture ed esperienze diverse, non costrette dalle convenzioni sociali di un ufficio, porta alla rapida creazione di una cultura aziendale differente. Più sincera, felice e produttiva.

Con la pandemia ho cercato di aiutare, grazie alla mia esperienza anche personale, lavoro in remoto dal 2006, molte aziende amiche che si erano ritrovate costretta al remoto improvvisamente.

Queste aziende non hanno avuto scelta e per loro l’esperienza iniziale è stata scioccante: c’è chi poi ne ha tratto profitto, e non ha il peso e la voglia di tornare in ufficio, e chi no, e prova nostalgia per il controllo “de visu” dei dipendenti e dell’assenza di “potere”.

Ora scusatemi, ma si è alzato un po’ il vento e devo lasciare il giardino, e cambiare ufficio.

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