Un talento incompreso in ufficio
Nelle aziende si verifica più spesso di quanto si ammetta: la persona di grande talento e visione – il “genio” in azienda – finisce per essere ignorata o fraintesa. Questo individuo intravede soluzioni innovative e segnala problemi emergenti prima degli altri, ma viene accolto con sguardi persi nel vuoto dal resto dell’ufficio. Eppure, gli studi ci dicono che ascoltarlo converrebbe eccome: quando i dipendenti condividono idee nuove o segnalano criticità, le organizzazioni innovano di più e ottengono risultati migliori, poiché i lavoratori sul campo “sono spesso i primi a vedere i problemi” e i loro input possono migliorare le decisioni del management (Research: Why Managers Ignore Employees’ Ideas). Insomma, il genio avrebbe ragione di parlare… se solo qualcuno lo stesse a sentire.
Invece il copione è quasi sempre lo stesso: il genio propone un’idea fuori dagli schemi o mette in guardia su un rischio all’orizzonte, ma i colleghi annuiscono in silenzio senza capire, mentre i superiori liquidano la questione con un “non rientra nelle priorità”. D’altronde, il vero innovatore spesso ragiona oltre le convenzioni aziendali: comunica in modo poco ortodosso, scardina certezze altrui e – orrore! – a volte contraddice il capo. Risultato? Invece di essere visto come una risorsa, il genio diventa un corpo estraneo nell’organizzazione, una sorta di geek idealista circondato da persone che preferiscono la comodità dello status quo. Del resto, è più rassicurante bollare il genio come “strano” o “ingestibile” piuttosto che mettere in discussione le proprie abitudini manageriali. Nessuno è profeta in patria, men che meno in patria aziendale.
Management vs. genio: meglio lo “yes-man”
Qui entra in gioco il management, che spesso non solo non comprende il genio, ma addirittura lo avversa attivamente. Il manager medio, soprattutto se insicuro, vede nel dipendente troppo brillante un potenziale elemento di disturbo: qualcuno che mette in discussione le direttive e magari offusca la sua autorità. Meglio allora relegare quel genio in un ruolo defilato e promuovere al suo posto un bel sì-signore (“yes-man”) sempre allineato e rassicurante. È la triste realtà di molte organizzazioni: circondarsi di persone che danno sempre ragione al capo, evitando il contraddittorio. Peccato che così facendo si spenga l’innovazione e, nei casi peggiori, si vada dritti contro un iceberg mentre l’equipaggio intona il “tutto bene, Capitano!”.
Non è solo aneddotica: la ricerca sul campo conferma questa dinamica. Un’analisi su Harvard Business Review osserva che i dirigenti focalizzati solo sul breve termine, presi da scadenze e obiettivi immediati, “non hanno interesse né incentivi né tempo per raccogliere e implementare le innovazioni dei dipendenti”, arrivando persino a scoraggiarle attivamente e avvelenando così la cultura aziendale.
In pratica, manager poco illuminati e ossessionati dai target tendono a soffocare sul nascere le idee rivoluzionarie dei loro collaboratori. All’opposto, i leader orientati al lungo termine e sicuri del proprio ruolo sono quelli che incoraggiano il confronto e danno voce alla creatività dello staff, traendone vantaggio competitivo. Purtroppo, non tutti i capi rientrano in questa seconda categoria.
Un altro fenomeno ben noto in psicologia spiega perché spesso il management ignora (o silura) l’esperto di turno: l’effetto Dunning-Kruger. In breve, i meno competenti tendono a sopravvalutarsi, mentre i più competenti vengono sottovalutati. Applicato all’ufficio, significa che un dirigente poco esperto ma ignaro dei propri limiti penserà di aver ragione su tutto e ignorerà i consigli dei veri esperti, convinto di “saperne di più” (Navigating the Dunning-Kruger Effect in Leadership: A Quick Survival Guide). Questa esuberanza dell’incompetenza porta a decisioni miopi e a circondarsi di collaboratori accondiscendenti, creando una cultura da “eco chamber” dove risuona solo la voce del capo.
L’innovazione? Per carità, meglio non avere grilli per la testa. Finché gli affari vanno decentemente, perché rischiare con le idee di quel rompiscatole del genio? – pensa il boss poco illuminato.
Il risultato di una tale cultura da yes-man può essere disastroso, e non solo in termini di mancata innovazione. Nei casi in cui sono in gioco sicurezza e qualità, l’assenza di voci critiche può causare veri danni. Il caso Boeing è esemplare (e tragico): un tempo la Boeing aveva una cultura “centrata sugli ingegneri” in cui era valorizzata l’apertura e il parlare chiaro, ma con il tempo ha prevalso un orientamento aggressivo al profitto, dove i dipendenti non si sentivano più liberi di segnalare problemi. Questa cultura del silenzio è stata indicata fra le cause di gravi incidenti aerei che hanno colpito l’azienda (Episode 5: How to avoid creating a ‘yes man’ culture – Berkeley Haas).
In altre parole, quando in un’organizzazione regna la paura di contraddire i capi, si crea un ambiente pericoloso: si preferisce tacere anche di fronte ai guasti, pur di non contrariare la linea ufficiale. Senza scomodare tragedie simili, è evidente che in qualsiasi impresa una squadra di yes-men potrà forse lusingare l’ego di qualche dirigente, ma lascerà l’azienda esposta a errori evitabili e opportunità mancate.
Previsioni azzeccate (ma nessuna scusa)
Talvolta il genio in azienda riesce a vedere così lontano che le sue previsioni si avverano puntualmente. E quando succede, il management come reagisce? Con imbarazzo? Pentimento? Macché: di solito non ammette mai l’errore e tira dritto come niente fosse, o peggio si prende il merito a posteriori.
È la sindrome della Cassandra aziendale: come la sacerdotessa troiana condannata a predire il vero senza essere creduta, il nostro genio annuncia il futuro inascoltato – e quando quel futuro arriva, chi non gli credette fa finta di nulla.
Esempi celebri abbondano, specie nel mondo tech. Kodak, colosso della fotografia analogica, aveva in casa la tecnologia per dominare l’era digitale ma la ignorò per miopia. Nel 1975 l’ingegnere Steve Sasson costruì il primo prototipo di fotocamera digitale all’interno di Kodak. La reazione dei suoi capi? Terrorizzati dall’idea di intaccare il lucroso mercato delle pellicole tradizionali, insabbiarono la scoperta. “Era fotografia senza pellicola, per cui la dirigenza reagì dicendo: ‘carino… ma non ditelo a nessuno’” raccontò Sasson (Kodak invented the digital camera – then killed it. Why innovation often fails | World Economic Forum). Il management Kodak si concentrò sui difetti iniziali di quella tecnologia (ingombrante, lenta, bassa risoluzione) e si rifiutò di investirci. Risultato: altri colsero l’opportunità al posto loro e, dopo aver dominato il ‘900, Kodak finì in bancarotta nel 2012, travolta proprio da quella rivoluzione digitale che aveva previsto in casa ma non voluto ascoltare. Una profezia autoavveratasi… al contrario.
(The First Digital Camera Was the Size of a Toaster – IEEE Spectrum) Steve Sasson, ingegnere di Kodak, con il prototipo della prima fotocamera digitale (1975). La sua innovazione fu accolta con scetticismo dai vertici Kodak, troppo legati al business della pellicola.
Un destino simile è toccato a Nokia, un altro gigante poi caduto. Quando Apple lanciò l’iPhone nel 2007, in Nokia alcuni analisti interni compresero subito che lo smartphone multitouch rappresentava un pericolo mortale per il modello di cellulare tradizionale. In un documento interno redatto il giorno dopo la presentazione dell’iPhone, un team di esperti Nokia concluse che il telefono di Apple era un concorrente serissimo nell’alta gamma e che il suo touchscreen avrebbe imposto “un nuovo standard” nel settore (Nokia knew in 2007 that the iPhone was a threat but failed to act on internal warnings – Gizchina.com). Eppure i vertici Nokia ignorarono queste avvertenze: preferirono focalizzarsi sui presunti difetti dell’iPhone – il costo elevato, la mancanza di tastiera fisica – senza coglierne il “fattore cool” e la superiore esperienza d’uso. In pratica l’azienda si disse: “bah, è troppo caro e strano, non avrà successo”. Peccato che il successo lo ebbe eccome, mentre Nokia, lenta nell’adattarsi, perse la sua leadership e nel 2013 dovette vendere tutta la divisione telefoni. Anche qui, qualcuno aveva visto giusto ma la dirigenza non volle dargli retta, concentrata a difendere lo status quo fino all’ultimo (The Strategic Decisions That Caused Nokia’s Failure | INSEAD Knowledge).
Persino quando il genio “eretico” ha ragione da vendere, difficilmente assisteremo a pentimenti pubblici dei capi. Avete mai sentito il top management dire: “Chiediamo scusa al nostro brillante ingegnere, ci eravamo sbagliati a bocciare la sua idea”? Molto improbabile. Più facile che tirino fuori scuse creative: “Non potevamo prevedere i cambiamenti del mercato”, oppure “la tecnologia non era matura allora”, pur di non ammettere che la visione ce l’avevano sotto il naso. Emblematico il caso di Gary Starkweather in Xerox: questo ingegnere inventò negli anni ‘70 la stampante laser (un prodotto che avrebbe fruttato miliardi all’azienda (Column: RIP Gary Starkweather, inventor of the laser printer – Los Angeles Times)) ma inizialmente i suoi capi la consideravano un progetto bizzarro, da stoppare. Anzi, gli ordinarono di smettere di “giocare” coi laser e tornare a lavorare su cose serie.
Starkweather dovette trasferirsi dal laboratorio Xerox di Rochester (New York) al centro di ricerca PARC in California per portare avanti la sua idea lontano dai superiori ostili.
Anni dopo, a successo conclamato, tornò in visita al vecchio lab: il suo ex capo gli chiese candidamente “stai ancora smanettando con quella storia del laser?”, ignaro (o fingendo di esserlo) che nel frattempo la “sua” stampante laser generava 2 miliardi di dollari l’anno in vendite. Ecco, neanche davanti all’evidenza c’è stato il riconoscimento: per il boss di un tempo era ancora un giochino, mica l’idea che aveva ripagato Xerox cento volte tanto.
A onor del vero, qualche volta qualcuno fa mea culpa – ma di solito fuori tempo massimo. L’ex CEO di Apple John Sculley, famoso per aver fatto fuori Steve Jobs dalla “sua” Apple nel 1985, molti anni dopo ha ammesso che cacciar via Jobs fu un errore (Former Apple CEO John Sculley: Forcing Steve Jobs Out Was a ‘Mistake’ – MacRumors). All’epoca Jobs, il co-fondatore geniale ma scomodo, era stato estromesso in favore di un management più “tradizionale” (e infatti nei dieci anni successivi Apple arrancò non poco). Sculley nel 2014 ha definito quella decisione una “mistake”, un errore di cui col senno di poi si pente. Parole sante, pronunciate però quasi trent’anni dopo – quando Jobs aveva già rivoluzionato il mondo tornando trionfante alla guida di Apple nel ’97. Insomma, meglio tardi che mai? Diciamo che al genio estromesso queste tardive ammissioni servono a poco; nel frattempo ha dovuto sudarsi altrove la propria rivincita.
Genio in fuga: cambiare azienda perché nulla cambi
Difatti, cosa fa il genio aziendale dopo essere stato ignorato, isolato, magari scavalcato dal mediocre di turno? Appena può, prende e cambia azienda. Fuggire diventa istintivo: se qui non mi ascoltano, troverò chi lo farà. È la classica “fuga dei cervelli” interna al mondo corporate. Peccato che spesso, una volta approdato altrove, il genio si ritrovi punto e a capo: nuovo giro, vecchi problemi. Certo, ci sono imprese più illuminate di altre, ma il modello manageriale è simile un po’ dappertutto e il rischio di imbattersi in un altro capo alla Dilbert è alto. Dopo qualche migrazione, molti talenti capiscono l’antifona e scelgono di mettersi in proprio, diventando imprenditori di se stessi (in stile startup) pur di dare libero sfogo alle loro idee. Del resto, se Steve Jobs non avesse trovato il modo di tornare al comando, probabilmente avrebbe continuato a innovare con la sua NeXT altrove; e se John Warnock non avesse mollato Xerox, non avremmo mai avuto Adobe: Warnock era un brillante ricercatore a PARC che lasciò l’azienda quando i dirigenti rifiutarono di commercializzare la tecnologia rivoluzionaria su cui lui e un collega avevano lavorato (un linguaggio per stampanti digitali). “Decisero che non l’avrebbero adottata né mostrata al mondo” raccontò poi, “noi pensavamo fosse una follia” (John Warnock, Adobe Co-Founder Who Helped Invent the PDF, Dies at 82 | PCMag). Così Warnock portò quell’idea fuori da Xerox e fondò Adobe Systems nel 1982, trasformando quella folle idea (PostScript) in uno standard mondiale. E indovinate? Xerox, che aveva snobbato la cosa, dovette poi accordarsi con Adobe per usare quella tecnologia. La ruota gira.
Va detto: non tutti i geni hanno la pronta opportunità di rifarsi come Jobs o Warnock. Molti cambiano azienda sperando in un ambiente migliore, ma finiscono semplicemente per trasferire il problema altrove. È un po’ il destino del personaggio di un vecchio film, “Ricomincio da capo” (il Giorno della Marmotta): rivivere la stessa giornata all’infinito, solo che qui la giornata è fatta di riunioni inutili, manager ottusi e idee inascoltate. Un genio passa da una società all’altra con la candida illusione “stavolta andrà diversamente”, per poi scoprire che i corporate nonsense sono diffusi come spore nell’aria. E alla fine, che resta? O si adatta a mimetizzarsi anche lui in mezzo agli yes-men (spreco di talento assurdo), oppure raccoglie il coraggio e fa il salto verso una propria impresa, dove almeno non dovrà combattere contro la miopia altrui (dovrà però vedersela con il mercato, che non perdona nemmeno i geni – ma questa è un’altra storia).
Da una prospettiva manageriale, perdere un “cervello” in questo modo è un danno enorme, anche se spesso i capi miopi sembrano non accorgersene. Molti dipendenti lasciano il posto proprio perché non si sentono ascoltati: un sondaggio del 2021 ha rilevato che il 41% dei lavoratori ha abbandonato un impiego perché la propria voce rimaneva inascoltata, e un altro 37% perché il feedback che dava non veniva preso sul serio (Statistics About of Employee Feedback 2021 | AllVoices). Quindi le aziende che non danno ascolto ai loro “geni” (o più in generale ai dipendenti competenti e appassionati) rischiano di ritrovarsi con un esodo di talenti. E quando il talento se ne va, restano – indovinate un po’ – gli yes-men, quelli bravi solo a dir di sì. Una ricetta perfetta per l’immobilismo e il declino.
Conclusione: come rompere il circolo vizioso?
Dipinta così, la situazione del genio in azienda sembra un tragico circolo vizioso: il genio non viene capito, si scontra col management che preferisce lo yes-man, le sue previsioni si avverano ma i capi non ammettono gli errori, finché il genio frustrato cambia aria… e spesso ricomincia daccapo altrove. Possiamo spezzare questo ciclo? Forse sì, con un po’ di autocritica e apertura mentale da parte delle aziende. Serve una cultura dove il dissenso costruttivo sia valorizzato anziché temuto. Alcune aziende di successo lo hanno capito: ad esempio, in Pixar e Netflix si celebra l’errore come fonte di apprendimento e si incoraggia il dibattito franco, proprio per evitare camere dell’eco e decisioni miopi (Episode 5: How to avoid creating a ‘yes man’ culture – Berkeley Haas).
I leader più illuminati sanno che circondarsi di persone che li contraddicono quando serve è un bene: modellano con il proprio esempio la capacità di ammettere sbagli e cercano attivamente il confronto con gli esperti interni. È questa attitudine che separa un’azienda destinata a innovare da una destinata a inseguire.
In fondo, gestire un genio (o anche solo un dipendente molto brillante) richiede umiltà e intelligenza: significa riconoscere che anche l’idea più “folle” merita un ascolto, che una voce fuori dal coro può salvare il coro dall’intonare la nota sbagliata. Certo, non ogni “genio” ha ragione e non ogni controproposta è valida – discernimento e pragmatismo servono sempre – ma soffocare a priori chi vede le cose diversamente è il modo più sicuro per condannarsi alla mediocrità.
In conclusione, il “genio in azienda” non dev’essere visto come una minaccia da neutralizzare, bensì come una risorsa da coltivare (magari con ironia reciproca). Ai manager spetta il compito di evitare la trappola degli yes-men e di creare un clima dove persino la voce più critica possa essere ascoltata senza pregiudizi. Agli innovatori “geniali” spetta invece il compito – ingrato ma necessario – di comunicare le proprie idee nel modo più comprensibile possibile, costruendo alleanze e credibilità all’interno dell’azienda. Se entrambe le parti faranno un passo l’una verso l’altra, forse un giorno non leggeremo più storie di talenti in fuga o di invenzioni visionarie cestinate per paura. E potremo finalmente vedere realizzato il paradosso di ogni bravo leader: circondarsi di persone più intelligenti di lui (e ascoltarle). In un’azienda così, il genio di turno non sarebbe più incompreso, ma diventerebbe il motore di successi condivisi – e magari perfino il vero asso nella manica del management.