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Le 8 domande che mi faccio per misurare il mio lavoro.

Ogni mese, come chiunque diriga un team, sono tenuto a pormi delle domande su come è andato il lavoro di tutto il team.

Inizio da me stesso: gestire un team significa proiettare su di esso successi ed insuccessi, quindi è necessario per prima cosa analizzare la propria situazione nel team.

Io lo faccio ponendomi otto domande che poco hanno a che fare con la pratica: non riguardano task e scadenze, riguardano le persone e come mi sono comportato con loro, cosa ho trasmesso, cosa posso fare meglio e di più per loro.

Ricordo che il manager è una attività utile solo se serve al team ed all’azienda: non è il capo di nessuno.

Vediamo le domande che mi pongo, e come analizzo la situazione.

1. Dove ho sbagliato?

L’infallibilità supposta dei manager ha portato al fallimento molte aziende. Occorre interrogarsi costantemente sul proprio pensiero e sui processi di lavoro, cercare di migliorarsi, capire cosa non va.

Il mio aforisma per questa domanda è:

Se tutto va alla perfezione, indaga meglio, hai scordato qualcosa.

Certo, in rari casi, bassa pressione sul lavoro, team empatico, organizzazione buona, può andare davvero tutto bene: in tal caso la cosa va accettata, senza adagiarsi e riposarsi sugli allori. Il lavoro sul team deve essere sempre costante, la porta sempre aperta, l’ascolto sempre disponibile.

Se si è sbagliato, cosa molto probabile, qualcosa, occorre fare un piano per migliorare, senza coprirsi il capo di cenere o deprimersi: sbagliare fa parte del processo costante di apprendimento.

2. Cosa ho imparato dal team?

Se ascoltate il team ogni giorno, dovete imparare qualcosa. Altrimenti il vostro ascolto è una messinscena. Ragionate su quello che avete appreso e mettetelo per iscritto.

Attenzione: non scambiate apprendere e curiosare sui fatti altrui.

3. Sono stato vanaglorioso ed arrogante? Ho messo su di me i riflettori più che su chi realmente lo meritava?

Una delle cose che può guastare di più i rapporti di un team è che il manager metta in ombra i meriti della squadra in proprio favore.

La tentazione però è forte: si raggiunge un obiettivo e ci si prende il merito, perché no? Il merito è anche mio.

Quell’anche fa cadere tutto: i meriti vanno riconosciuti prima agli altri.

4. Ho chiesto aiuto?

Spesso, per non disturbare il team, mi assumo compiti che potrebbero invece essere risolti rapidamente con l’aiuto di qualcuno. Questo riduce la mia produttività e mi distrae dalla guida del team stesso. Una pratica da evitare, piuttosto diffusa, “chi fa da sé…”.

Controllare sempre se si è chiesto aiuto abbastanza. Chiedere aiuto non vi rende deboli: anzi rafforza il legame empatico che avete con il resto della squadra.

5. Ho evitato pettegolezzi, opinioni non suffragate da dati, comportamenti antipatici, aggressivi, scontrosi?

A tutti capitano le giornate no, quelle in cui magari l’emicrania ti rende nervoso, ma queste cose possono guastare l’umore di una squadra irreparabilmente. Se accade bisogna evitare di esternarle troppo. Se si sbaglia bisogna correre ai ripari chiedendo scusa e rimediando.

Se invece tra la squadra qualcuno semina pettegolezzi, sul lavoro spesso mascherati da un “è per il suo bene che lo dico”, occorre bloccare la fonte con fermezza, evidenziando che saranno presi provvedimenti verso il pettegolo.

Fare squadra significa anche scherzare con gli altri, ma sempre nel rispetto di tutti.

6. Ho riso dei miei errori?

Tutti sbagliamo, siamo esseri umani, quando a sbagliare è la guida occorre ammettere i propri errori e riderne insieme agli altri.

Gli errori diventano guai soltanto se li si imputa ad altri, facendo scaricabarile, quando li si nasconde sotto al tappeto, quando gli si addebita eccessiva importanza.

7. Ho speso del tempo per costruire fiducia reciproca nel team?

I task sono tanti, il lavoro è sempre impegnativo, ma il team necessita del massimo effort possibile in empatia e fiducia. Quando un team ha fiducia in tutti i suoi componenti, è un team vincente. Non si costruisce la fiducia solo col lavoro e le interazioni ad esso collegate: si costruisce con i rapporti umani di lavoro tra i singoli componenti.

8. Ho ricompensato come potevo chi ha giocato in squadra con me?

Le ricompense non sono carote. Spesso dimostrare stima e riconoscenza, trattare i componenti della squadra come partner dell’azienda e non come “sottoposti” è una ricompensa di valore.

Quando poi si raggiungono degli obiettivi, occorre distribuire ricompense più tangibili, e mirate sul singolo e sulle sue esigenze.

E voi, cosa vi domandate ogni primo del mese?

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