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Programmare è un’arte.

Ho scomodato la parafrasi dell’opera immensa di Knuth, per dirvi come la penso io del mio lavoro, che è difficile da spiegare ai non developer.

Quando ho iniziato il mio percorso nell’informatica, volevo fare videogame. Non c’era un grande hardware, non c’era il 3D, non c’erano motori complessi, le risorse dei computer erano quelle degli 8bit.

Disegnavo gli sprite con un editor che avevo fatto io, piccoli omini e animali che ero capace di far correre dappertutto: in assembler del 6502. I miei amici mi invidiavano: loro col BASIC non riuscivano ad ottenere le mie magie.

Avevo già piccole esperienze con altri computer: lo Z80NE costruito ed abbandonato da mio padre, l’apple ][ che ero riuscito ad acquistare vendendo il computer precedente con un gestionale fatto da me, in “Bundle” ad un grande panificio. Usava una stampante a margherita. Per molti lettori sarà una tecnologia sconosciuta.

I miei primi piccoli lavori nell’ambito gestionale, rigorosamente in nero e forse mal pagati, mi rendevano comunque “ricco” rispetto ai miei coetanei adolescenti.

Imparai così che visto che i videogame erano un sogno, per riuscire dovevo avere una fonte di finanziamento. Quei primi gestionali mi fecero comprare il Commodore 64 e il drive 1541. Erano dei gioielli per i videogame, anche se la stabilità e la solidità del mio Apple ][ mi era rimasta nel cuore. Continuai ad usare entrambi i sistemi: con l’Apple iniziai ad interessarmi di Baudot, telematica, BBS, ne scrissi uno che funzionava con due accoppiatori acustici contemporaneamente, perfino il protocollo kermit scritto personalmente.

Con il C64 di videogame. Più a costruirli che a giocarli, con grande sgomento dei miei compagni.

Non ottenni grandi successi nel campo ludico: a malapena riuscii a completare un clone di Pitfall. La mia passione costava denaro, e nel frattempo l’adolescenza si era fatta sentire: trovai un’occasione di lavoro in una società di informatica locale.

Pensavo di imparare molto dal mio primo lavoro: in effetti fu così ma non per quello che mi aspettavo. Nessuno poteva insegnarmi a programmare meglio: quello che imparai fu come gestire le persone che lavoravano con me.

Imparai come funziona un’azienda, come trattare con i clienti, come risolvere le situazioni di crisi dovute a vendite ottimistiche di prodotti che non esistevano.

Imparai che in azienda la mia passione non era necessariamente finanziata dalle mie tasche: qualsiasi computer volessi, potevo averlo. Certo stava in ufficio e non in casa. Ma ci abitavo davanti.

Non voglio ammorbarvi con “fai della tua passione un lavoro e non lavorerai un giorno in vita tua”. Non è vero. Però è meglio che fare qualcosa che si odia, di certo.

Sono sempre stato una persona pragmatica ed allo stesso tempo creativa: la creatività è alla base dello sviluppo software.

Il software è l’unica opportunità che si ha di creare qualcosa di “vivo”, qualcosa che, grazie a te, fa qualcosa di sensazionale. Il limite è il cielo, non sappiamo cosa porterà l’informatica all’umanità.

Il software può essere arte del singolo o collaborativa. Se il cinema è la settima arte, il software è di certo l’ottava, che sia un videogame o un gestionale.

Quando, ultimamente, sento dire che programmare è soltanto un lavoro, che i programmatori sono gli operai di questo secolo, quando sento svilire questa nobile professione, intervengo con maggior calore che in una discussione novax.

Certo, la democratizzazione degli strumenti di sviluppo, internet, la facilità di avere accesso ad esempi di codice, la cultura informatica, perfino GitHub Copilot rendono più semplice avvicinarsi allo strumento.

Tutti possono comprare martello e scalpello, alcuni saranno scalpellini, ma pochi saranno Donatello.

Valorizziamo gli artisti, sono più difficili da trattare degli scalpellini, ma ci daranno tante soddisfazioni in azienda.

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